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I sapori della miseria

Stoccafisso - Nduja - AliciStoccafisso - Nduja - Alicidi Tito Puntillo
 
L’amico Mimmo Gangemi ci ha regalato giovedì passato un bell’articolo sui “sapori della miseria” che aleggiavano nel nostro Mezzogiorno; sapori che nel corso del tempo e in progressivo crescendo, stanno conquistando le tavole da pranzo più ricche e raffinate. Del mondo. (MIMMO GANGEMI, I sapori della miseria, La Stampa, giovedì 28 luglio 2016, pag. 26).


Egli s’è soffermato su tre tipologie di alimenti “poveri” una volta, divenuti costosioggi:
- Lo stoccafisso
- La nduja
- La colata di alici.

Lo stoccafisso, scrive Mimmo Gangemi, fu introdotto in Italia dai Normanni e fino a poco tempo addietro, fu uno dei parametri che si adoperavano come spartiacque fra il popolino e i ricchi che al solo odore, “arricciavano il naso”. Si diffuse da noi su larga scala dopo il grande terremoto del 1908 perché fu uno degli alimenti che giunsero come soccorsi da parte di Norvegia, Svezia e Finlandia alle popolazioni rimaste nel niente. Ma anche allora il popolino non accedeva frequentemente a questo tipo di alimento, già costoso di per sé durante il dopoguerra se non quando “si santificava” e se ne comperava per esempio la coda e la lisca per preparare condimenti peraltro eccellenti. Oggi il pescestocco è davvero un lusso: una pinna secca al supermercato costa anche 25/30 euro.
Quanto scrive Gangemi è vero: le colonne militari Normanne che scesero verso Sud, avevano le pinne secce fra le vettovaglie al séguito e quando ponevano un campo di almeno tre o quattro giorni, provvedevano ad ammollarlo per poi accompagnarlo col biscotto che si procuravano fra i villaggi che attraversavano e quando non lo rinvenivano, lo facevano infornare dai terrorizzati pastai. Il biscotto fu l’alimento principe di tutte le truppe dell’Era Moderna in trasferimento, navigazione o in battaglia ed era costituito semplicemente da farina o suoi derivati, infornata più volte (= bis-cotto) in modo che l’alimento non ammuffisse o marcisse. Il grano scarseggiava e spesso il biscotto era farina di carrube, ghiande secche, cicerchia e nel migliore dei casi segale e altri frutti di leguminacee. I nostri nonni che hanno passato la Guerra, ne sanno qualcosa.
Il pescestocco attecchì dalle nostre parti perché i Normanni che occuparono l’interno, lo scambiarono frequentemente con pezzi di gallina, uova e maccheroni e l’interno era la direttrice che partendo dalla costa miletese, conduceva fino all’area di Mammola, lungo la via militare e commerciale che congiungeva il Jonio col Tirreno. Ancoraoggifra Rosarno - Taurianova e Mammola, si trova il migliore pescestocco, preparato con metodo tradizionale, nelle gebbie ove ammolla in un’acqua eccellente, sempre rinnovata con un filo sottile di acqua molto fredda. A questo uso limitato e tradizionale, s’aggiunse nel 1908 quello a più larga diffusione soprattutto nel reggino e a Reggio stessa, diffusione favorita dai massicci rifornimenti che giunsero dalla Scandinavia. E a Reggio oggi, in effetti, si trova eccellente pescestocco, anch’esso preparato seguendo l’antico protocollo: acqua fredda e pura e ammollo continuato.
Il pescestocco acquistato, ammoniscono i preparatori, non va mai messo in una bacinella e lasciato sotto un rubinetto per fargli scorrere l’acqua addosso. Va deposto nella bacinella e gli va versata sopra acqua fredda da frigo. Poi messo in frigo così. Il ricambio deve avvenire nella medesima maniera: solo acqua molto fredda. Così si mantiene calloso e non si sfilaccia. Alimento divenuto principe, oggi stupisce il visitatore e il turista nordico che non conosce la bontà delle interiora ammollate e cucinate con pomodoro e il nostro basilico, insieme alla spina del pesce, e la preparazione del pescestocco in numerosi modi diversi. Ho visto approcciare con fatica, quando viaggiavo per la Fiat dalle nostre parti, ed eravamo a Cittanova, un diffidente collega di lavoro del nord-est di fronte a un fumante piatto di spaghetti col sugo di pescestocco. Fummo costretti a fermarlo dopo il bis!

La nduja, informa Gangemi, deriva il suo nome dal termine francese “andouille” che fu una specie di «marmellata» di salame e polpa animale che l’esercito francese al séguito di Giuseppe Napoleone e poi di Gioacchino Murat, consumava durante i trasferimenti. Era insaccata in un budello e lasciata affumicare affinché si sterilizzasse e si mantenesse per lungo tempo. Quando Murat entrò a Napoli, pensò bene di fare distribuire ai Lazzari, affamati e cenciosi, molta di questa “marmellata” che loro insaporirono con peperoncino e finocchio. I ricchi patrizi della Capitale del resto, facevano insaporire così le loro ottime salsicce. Alimento povero per poveri affamati la prima nduja, essa viaggiò lungo la direttrice della Strada Regia delle Calabrie e giunse fino a noi e da noi trovò la propria assoluta celebrazione. Nel comprensorio agricolo di Spilinga era già in uso la preparazione del maiale secondo le tipologie che noi tuttioggiconosciamo, dalle salsicce alla soppressata ecc. Ma proprio a Spilinga venne ai contadini l’idea di raccogliere le frattaglie del maiale, miscelarle assieme a pomodoro secco e peperoncino abbondante e quindi insaccare il tutto nell’«orba», il budello cieco. Dopo il processo di affumicamento con legni specifici, la nduja era pronta! L’elaborazione del processo ha condotto oggi all’ottenimento di un insaccato unico nel suo genere. Tenero, spalmabile, ottimo come ingrediente per salse e contorni. Ma la preparazione della vera nduja non è mestiere di tutti perché la scelta delle frattaglie va eseguita sapientemente così come sapientemente dev’essere l’impasto e le dosi di aromi. La ndujaoggisi prepara in tutto il mondo. La vera nduja si trova solo ed unicamente da noi.

La colata di alici è davvero un dono di Dio! E’ il capolavoro della marineria amalfitana e ogg icostituisce la scelta di lusso nei ristoranti alla moda, unitamente al vino spumante italiano d’annata. Pensate che in antico la colatura di alici si recuperava per insaporire in qualche maniera la fettina di pane, essendo le alici stesse messe sotto sale, un alimento proibitivo per le tasche del popolino nostro. Il liquido ambrato colato dalle alici messe sotto sale veniva e viene recuperato, riversato per un secondo “passaggio” e quindi filtrato con teli di lino. Quello che si ricava ancoraoggi, è un condimento di indescrivibile sapore. Una volta cibo per i poveri,oggisulle tavole più costose. Ricordo molto bene le rappresentazioni teatrali sul tipo di “Miseria e Nobiltà” ove la povera famigliola si riuniva attorno al capofamiglia che teneva in mano un’acciuga e con essa strofinava la fettina di pane di ogni componente della sua famiglia. Tempi passati ed è meglio, ed è giusto. Purché nessuno dimentichi le origini, e così tutto si santifica spiritualmente. E poi amici, volete mettere? Una cosa è aggiungere sale alla salsa di pomodoro, un’altra è sciogliervi una bella acciuga dissalata leggermente. E così come per la tradizionale salsa, anche per decine e decine di preparazioni mediterranee. Ne rammento solo una per tutte: pasta & broccoli. Condimento a base di olio puro, aglio fresco e peperoncino fresco. Aggiungiamo una bella acciuga alla carne siciliana (quella conzata nelle latte con capperi e olive), dissalata, o anche mezzo cucchiaino di colatura d’alici. E poi la sua glorificazione assoluta: una bella acciuga distesa sopra mezzo peperone ben arrostito, sbucciato e condito con super olio extra vergine di oliva non filtrato, lavorato magistralmente nei dintorni di Oppido e fino alla Cuvala. Può essere la felicità.