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L'ANGOLO DELLA POESIA Fùjunu r’i guerri ma no’ r’u mari

Rocco NassiRocco Nassidi Rocco Nassi

Esti china na gràlima chi ccora,
è fridda com’all’acqua quandu nghjela,
mi ntossica e sciuca la me’ gula
volunu i penzèri...e lu cori scura.

I cunti si perdiru nt’e libbretti,
com’ammenz’ô mari i fili ’i vuci.
Cumpari a st’occhju meu senza paci
na uccà ’i piscicàni pemmi i nghjutti.

No’ staci cchjù a galla na varchitta
u sali nt’o camìnu s’a mangiau,
cu ija cchjù ’i na vita si portau
nnegàtu viju u mundu a testa sutta.

A minna ’i na mamma faci latti
duna vita... ma è china ’i malucori,
volissi ’i stu mundu scumpariri;
nu figghju stu velenu zuca e nghjutti.

Rocco Nassi si definisce, “Amante dichiarato delle tradizioni del proprio paese” e scrive poesie sin da giovanissimo, tanto da meritare, a Bagnara, il soprannome di “U Pueta”. L’uso del dialetto è, per lui, un fatto ideologico: non vuole parlare in italiano perché tradirebbe le sue origini, la sua cultura; l’italiano è per lui la lingua di Stato, grigia e scolorita, quasi entità burocratica. La storia della letteratura va, a suo avviso, rivisitata, capovolgendo lo schema in cui tutto tende ad una unitaria cultura nazionale e dove le realtà regionali corrono il rischio di essere considerate negative e rallentanti nella formazione dei giovani. Fermamente convinto che, sin dal sorgere del regno d’Italia, sia stata portata avanti una politica non certo favorevole agli idiomi regionali, sostiene che molti, tra borghesi e operai emigrati al nord, per molti anni, abbiano cercato di adeguarsi al pensiero dominante, fino a vergognarsi di usare quotidianamente il dialetto nonostante, forse, facessero fatica a conversare in una lingua a loro non familiare sin da bambini. Non erra, a mio avviso, quando afferma che il dialetto resta ancora un mezzo validissimo che si presta a rendere con efficacia lo spirito, l’humus, di un popolo, nonostante sia stato commesso il grave errore di negare per decenni l’uso della loro lingua madre, nelle scuole elementari, a bambini che fino all’età della scolarizzazione erano stati soltanto dialettofoni, indicando loro l’uso del dialetto come segno di minorità sociale. I nostri governanti hanno ignorato per decenni che, come ebbe ad affermare un grande filologo, Gianfranco Contini, il rapporto col dialetto non si esaurisce nella esplicita, specifica produzione dialettale. I grandi scrittori del passato, da Dante a Leopardi, a Verga, Pirandello, Svevo, mal si intendono staccati dalla matrice dialettale in cui si radica la loro capacità di espressione linguistica. Il dialetto è un patrimonio culturale che va tutelato perché è una lingua in cui è scritta la mappa genetica di coloro che lo usano e, nei suoi versi, Rocco Nassi propone l’idioma usato quotidianamente per parlare con i familiari e con gli amici, fino al punto di utilizzare, anche scrivendo, la doppia consonante all’inizio di parola (fenomeno automatico quasi mai registrato dai lessicologi). I suoi versi propongono una rivisitazione di fatti e di personaggi nei cui atteggiamenti sono rintracciabili la Storia e la cultura del Meridione, ma non rappresentano uno sguardo nostalgico al passato, semmai, intrisi di una quotidianità che spesso sconfina i limiti dell’io per assumere una dimensione “civica”, legata al contesto socio-culturale in cui l’autore vive e lavora, denunciano che una cultura come quella del Sud, formatasi in secoli di lotte, di dominazioni, di lavoro e di miseria, non può essere offuscata dalla massificazione che purtroppo minaccia la nostra società. Il mondo dialettale di Nassi si manifesta in una quantità di componimenti quasi sempre in bilico fra l’assorta meditazione sulla storia e sulla condizione umana e l’estroverso animo popolare, tanto da richiamare alla mente un vecchio discorso di Pietro Pancrazi e Mario Sansone sulla distinzione tra poesie vernacolari e poesie dialettali: Rocco Nassi scrive poesie che, per il loro contenuto, vanno oltre la lingua, dimostrando che il poeta dialettale non sempre è poeta popolare e certamente egli non lo è quando ci fa riflettere sull’alternarsi, in Calabria, di popoli e culture diversi, provenienti da tutto il Mediterraneo, che hanno lasciato nell’animo della gente una sensibilità, non migliore o peggiore, ma certamente per alcuni aspetti diversa da quella di altre popolazioni della Penisola. Nassi non propone il dialetto a fini folkloristici, portando avanti qualche ricerca di canti popolari con l’animo del cantore medioevale, ma è fermamente convinto che il dialetto, con tutte le sue varianti, ha dignità di lingua, pur nelle sue differenze e sfumature, è parte integrante del patrimonio culturale della Calabria, e va quindi adeguatamente tutelato. Se accettassimo di adeguarci passivamente, come forse di fatto sta accadendo, ad un conformistico uso della lingua italiana secondo canoni radiotelevisivi, un pezzo incommensurabile della nostra storia millenaria e della nostra cultura, si perderebbe e contribuiremmo ad eliminare un meraviglioso insieme di sensazioni, sonorità, emozioni che solo le parlate locali sanno infondere nell’animo, grazie alla loro ricchezza lessicale che, a volte, permette di esprimere, con un solo termine, concetti che in italiano richiedono elaborati giri di parole. In uno dei nostri brevi dialoghi Rocco Nassi avanzava l’idea di volgere lo sguardo al futuro, ritenendo non azzardata e fuori luogo l’ipotesi di istituire corsi extracurriculari di dialetto (o forse sarebbe meglio dire della nostra lingua regionale) nelle scuole per rafforzare la conoscenza dei giovani che già ne fanno uso, ma anche permetterne l’apprendimento a coloro che fino ad ora hanno considerato l’uso del dialetto manifestazione di scarsa cultura o, addirittura, di villania. Un simile progetto sarebbe realizzabile grazie ad una seria programmazione capace di coinvolgere le istituzioni, utilizzando i fondi comunitari, come previsto dalla Carta Europea delle lingue regionali e minoritarie approvata dal comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nel 1992. È vero che una coscienza linguistica matura sembra ancora di là da venire, ma negli ultimi anni, la convinzione che il patrimonio linguistico dialettale costituisca un “bene culturale” da tutelare sembra che si stia facendo strada tanto nelle sedi politiche istituzionali che nell’opinione pubblica.

Il dialetto di Bagnara

La tradizionale divisione del territorio della Calabria in Calabria Ultra (o Calabria greca) e Calabria Citra (o Calabria latina) non corrisponde, come apparentemente potrebbe sembrare, alla divisione linguistica della regione che presenta varietà di dialetti romanzi che, solo indicativamente, possono essere articolate in tre grandi aree linguistiche: una settentrionale, comprendente le province di Cosenza e di Crotone; una centrale che comprende parte dei dialetti delle province di Catanzaro e Vibo Valentia; una meridionale che, oltre alle frange meridionali delle province di Vibo Valentia e Catanzaro, interessa tutta la provincia di Reggio Calabria. La Carta dei Dialetti d’Italia (Pisa, Pacini 1977) elaborata da Giovan Battista Pellegrini, e che si basa prevalentemente sui dati dell’Atlante italo-svizzero (Sprach-und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, Zofingen 1928-1940), colloca la parlata di Bagnara Calabra tra i dialetti “meridionali estremi”, a vocalismo tonico siciliano, cioè tra quegli idiomi che, secondo l’opinione del filologo tedesco Gerhard Rohlfs, considerato il padre della lessicografia calabrese, manifestano fenomeni riflessi di una lunga bilinguità greco-latina determinata dalla romanizzazione che impose il latino che si affermava lentamente come lingua “egemone” (lingua dell’amministrazione, dell’esercito, ecc.) a scapito del greco. Il latino, infatti, procedeva rapidamente lungo la via Popilia, assimilando linguisticamente le regioni vicine alla grande arteria romana. Certo è che il dialetto di Bagnara, pur facendo parte, come è evidente, del gruppo dei dialetti italiani meridionali estremi, presenta caratteristiche che, per certi aspetti, lo differenziano dalle parlate dei paesi limitrofi, come il rotacismo fonetico, un fenomeno particolarmente consistente nella storia della lingua latina e documentato in alcuni dialetti: ligure, sardo, corso, napoletano e, cosa che ci interessa particolarmente nel siciliano (in particolare nella zona dei Monti Iblei, Sicilia sud-orientale, tra le province di Ragusa, Siracusa e Catania, ma non solo). A Bagnara il rotacismo interessa la “d” in posizione intervocalica: per fare un esempio si può ricordare che alla parola italiana “adagio” corrisponde, in bagnarese, “araggiu”. In alcuni casi la “d” si trasforma in “r” anche ad inizio di parola, come in “mi ti runa”, che corrisponde all’italiano “che ti dia”, “rassau” = ha lasciato, “r’a” = di a > d’a. Non si trasforma invece la “d” di “dialettu”. Altro fenomeno complesso che si riscontra nel dialetto calabrese è il processo di evoluzione fonetica -ll- > -ḷḷ- > -ḍḍ- > -ḍ- > -ṛ- > -j, verificatasi per progressiva retroflessione e successiva palatalizzazione. La fase -ll- appare come il punto di partenza dell’evoluzione, la fase -j- è l’esito finale con completa palatalizzazione che si è affermata da secoli nell’area di Bagnara (ma anche in paesi limitrofi come Sinopoli, San Procopio, Melicuccà): pelli > peji. A Bagnara persiste, al contrario di altri paesi limitrofi, dove il fenomeno si è attenuato negli ultimi decenni, la presenza delle retroflesse [ṭṛ], [ṣṭṛ] che attesterebbe, secondo la tesi di Clemente Merlo, il più grande dialettologo italiano del primo Novecento, un sostrato mediterraneo e non greco. Pur riscontrando delle peculiarità, possiamo comunque affermare che il dialetto bagnarese mantiene, in linea di massima, i caratteri tipici dei dialetti meridionali, tra cui la mancanza del futuro e del passato prossimo. Per la sua posizione sul mare, Bagnara è stata, alla fine del primo millennio, fatta segno delle incursioni saracene, testimoniate nel suo dialetto da termini di chiara origine araba come balàta ‘lastra artificiale di pietra, marmo o altro materiale’ < ar. balâṭ ‘solum complanatum’; gèbbia ‘cisterna, vasca murata’ < ar. ǵābiya; margiu ‘terreno non zappato, terreno paludoso’ < ar. marǵ ‘terreno da pascolo’; sciarra ‘lite, zuffa’ < ar. šarra ‘inimicizia, lite, guerra’. Sembrerebbe, a prima vista, di poter affermare che dalla fusione delle due lingue classiche abbia avuto origine il dialetto dello stretto, della cui area Bagnara è parte integrante, ma è da tenere presente che un acceso dibattito sull’origine del nostro dialetto ha visto, per decenni, due tesi contrapposte, quella del tedesco Gerhard Rohlfs che ha con autorevolezza sostenuto che il latino, in Calabria, non riuscì mai a cancellare del tutto la lingua greca, tanto che si è conservata ininterrottamente fino ai giorni nostri nelle isole grecaniche dell’Aspromonte, e altri studiosi, come Alessio, Pagliaro, Battisti, Parlangeli, secondo i quali il latino, dopo aver scalzato il greco, si è imposto come lingua del popolo, tra il II sec. a.C. e il V sec. d.C., fino a quando con l’annessione della Calabria e di gran parte dell’Italia meridionale all’Impero d’Oriente ebbe inizio un secondo periodo di profonda grecizzazione (secc. VI-XI).

Giuseppe Antonio Martino