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Sul “Puzzle Moro” di Giovanni Fasanella

  • Categoria: Politica

Il puzzle MoroIl puzzle Morodi Peppino Maisano

Il Dr. Saverio Paletta, classe 1971, all’epoca del delitto Moro e della molto complessa trama politico-istituzionale che allora fece da contorno alla tragica vicenda, aveva appena sette anni.

Mi pare che un qualche diritto in più di intervento su quella brutta storia che ancora oggi arrovella molti scrittori, saggisti e giornalisti con opere, saggi e articoli meritevoli di prima pagina possa averlo pure chi come me (classe 1941) ha vissuto quei 55 giorni di buio fitto e tormento con l’ansia e l’angoscia di vedersi crollare addosso all’improvviso una costruzione gigantesca, quasi ideale, pensata per un futuro migliore della società di quei tempi, da molti anni sperato e sognato con impegno politico e indomita passione.

A quel tempo Moro, nella DC dominante e straripante su tutti i governi che si alternavano nello scenario politico del nostro Paese, era il simbolo massimo del pensiero moderato, nonchè del potere politico imperante, attorno a cui ruotava l’essenza più significativa e principale degli altri partiti che con la DC costruivano e demolivano incessantemente i vari governi del Paese.

Moro aveva da tempo capito che lo sforzo da lui fatto nei primi anni 60 di aprire il governo ai socialisti non era stato sufficiente a dare al Paese quello scatto necessario per fare uscire dalle secche l’economia e ridurre le diseguaglianze sociali sempre più aspre e stridenti. I moti del 68, tutti di marca sinistrorsa, fortemente destabilizzanti nei partiti e nella società, incominciavano a far maturare anche nel partito di opposizione, il PCI post-togliattiano, la coscienza di un necessario rinnovamente che preludesse a un radicale ricambio delle formule governative in atto.

Berlinguer alla segreteria nazionale del PCI(1972) affrontò questo problema, nel mentre, per altro verso, tenta di studiare il come comunicare allo storico alleato sovietico che la ricetta di quel comunismo scomodo incominciava a perdere “la spinta propulsiva”, per avvisare in pari modo i democristiani che il suo partito veniva avanzando sempre più sul terreno dell’emancipazione politica idonea a mettere in crisi le vecchie alleanze per costruire più nuovi equilibri. Gli strappi di Berlinguer però non passeranno inosservati nel suo partito, dove cominciarono i primi mugugni che si trasformarono in urla e grida per gli aspri contrasti apertisi nelle ali estreme del partito dove non si tolleravano aperture di sorta verso quella Democrazia Cristiana. Le forti tensioni del PCI si riversarono nel Paese che in tempi brevi divenne teatro di atti terroristici sfociati in assassinii che gettarono nell’ansia e nel terrore l’intero Paese.

Le elezioni politiche del 1976 rappresentarono la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso: il partito socialista di De Martino con la formula degli “equilibri più avanzati”si è svuotato a favore del PCI, La DC è stata superata in voti e percentuali dal PCI, il vecchio quadro politico è uscito sconquassato e diversi partiti hanno dovuto ricambiare la. propria dirigenza.

Tale la situazione generale del Paese nel giorno in cui (16 marzo 1978) si presentava alla Camera il governo Andreotti, sostenuto da socialisti, repubblicani e socialdemocratici, appoggiato dall’esterno - per la prima volta - dal PCI guidato da Berlinguer, stanti segretari politici Zaccagnini per la DC, Craxi per il PSI, La Malfa per il PRI e Cossiga indicato al Ministero degli Interni.

Alle nove circa del mattino di quel medesimo giorno a Roma, in via Fani, mentre alla Camera fervevano i preparativi per l’insediamento del nuovo governo, si consumava il rapimento dell’On. Moro Presidente della DC e mallevadore della nuova formula governativa che stava per fare il suo primo ingresso a Palazzo Chigi e nel Paese, e mentre cadevano nel sangue per scariche di mitra quattro fedeli servitori dello Stato posti a scorta dell’illustre viaggiatore. Il tutto, sotto lo sguardo attento e vigilante del gran Maestro della Loggia P2 Licio Gelli, deluso e sconfitto fino a quel momento per gli sbocchi della crisi, e non certo felice e gaudente di ciò che stava avvenendo in quelle ore nelle stanze alte delle nostre Istutuzioni.

Il Paese di allora, alla notizia del rapimento di Moro, cadde nello sgomento e nell’incubo. Improvvisamente fu come si spalancasse davanti a tutti un baratro senza fine. Qualche giorno dopo arrivarono i primi messaggi delle BR(brigate rosse) che rivendicavano il rapimento proponendo al governo di patteggiare per avere restituito l’ostaggio. La politica prima di tutti, con il governo Andreotti in testa, i partiti di governo e di opposizione, l’opinione pubblica e la stampa nazionale si divisero simultaneamente in due orientamenti fra loro molto netti quanto opposti e contrastanti: la fermezza e la trattativa.

Attorno a questo dilemma, da una parte rigore intransigente propugnato dal governo Andreotti affiancato dal Pci di Berlinguer e dal repubblicano La Malfa, oltre che da una traballante DC zaccagniniana resa ancora più debole e zoppicante dalla scomoda posizione di Giovanni Leone al Quirinale, Presidente della Repubblica in stato di accusa per il caso Lockeed, dimessosi poi nel giugno successivo; e dall’altra, la spinta e lo scatto umanitari ispirati alla trattativa per liberare il prigioniero agitati dai socialisti di Craxi e da ampi settori del pensiero laico e cattolico, si è giocata allora l’intera partita sul cosiddetto “Caso Moro”.

Nè più, nè meno di tutto questo si è trattato, a mio modesto parere in quei drammatici 55 giorni senza fine; non tralasciando s’intende il caotico e continuo via vai delle innumerevoli volanti sparse per le vie di Roma e dintorni (Via Gradoli) e di alcuni altri centri prossimi alla capitale, comunque non molto lontani (il Lago della Duchessa), dove si è mosso frenetico e impotente il setaccio largo e inutile della ricerca infingarda e ambigua messa in moto da Cossiga dal Viminale, mentre a Palazzo Chigi e nelle Segreterie politiche dei partiti di governo si svolgevano laceranti dibattiti diurni e notturni ed entravano in scena farisaiche rappresentazioni degne del miglior teatro tragicomico napoletano.

Per arricchire e meglio completare il “Caso Moro” serve l’aggiunta di altri due elementi che meritano qui doverosa menzione perché anch’essi hanno avuto un ruolo nientaffatto trascurabile nella vicenda, arricchendola di stranezze e rendendola più drammatica nel surreale. Il primo elemento attiene al tentativo dei socialisti di aprire un canale indiretto di relazione con i carcerieri brigatisti per tentare la liberazione del prigioniero. A tal uopo era stato attivato e incoraggiato ad agire nell’impresa da una componente del partito di Craxi (Giacomo Mancini e Claudio Signorile) il Prof. Franco Piperno, vecchio epigono della sinistra culturale, molto noto e stimato negli ambienti universitari di allora. L’operazione ha dato risultati che Craxi mise subito a disposizione del governo.

Andreotti rifiutò, strettamente abbracciato a Berlinguer e La Malfa, tutti posizionati sin dalle prime ore dello scoppio della tragedia sul confine invalicabile della fermezza e dell’intransigenza, sostenute e sventolate dal quotidiano “la Repubblica” di Scalfari che si preoccupò in simultanea di fare ampio scudo sul governo e di propagare per tutti i quattro punti cardinali del Paese la lieta novella del rigore ferreo intransigente intestata in particolare al PCI, nuovo potenziale alleato governativo della DC.

Il secondo episodio attiene alla discesa in campo di Paolo VI con la lettera-appello rivolto agli “uomini delle Brigate Rosse”, nel quale il Pontefice chiedeva “in ginocchio” di liberare l’On. Moro “senza condizioni”. I termini usati nell’appello dal rappresentante della Chiesa Cattolica(“…liberate l’Onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni, …) hanno fatto chiaramente intuire all’intero Paese il dramma intenso vissuto nel dolore dal Pontefice per la tragedia occorsa all’”amico di studi”, ma soprattutto il suo aperto(pur se sofferto) segnale di condivisione della linea della fermezza perseguita dal governo. Il momento in cui cadeva l’appello papale ai brigatisti era di massima tensione (21 aprile 1978) perché coincideva con l’ennesimo rinvio dell’esecuzione più volte annunciata ma sempre rinviata. Ragion per cui, a parere di molti osservatori dell’epoca, le suppliche del Papa rivolte ai brigatisti hanno segnato la parola fine della vicenda perché furono interpretate dai destinatari come il suggello finale alla linea della intransigenza tracciata dalla triade Andreotti, Berlinguer, La Malfa con il governo al seguito.

Concludendo, resto personalmente dell’umile parere che tutta la partita sul caso Moro sia stata interamente giocata entro i confini di casa nostra, tra schegge fuoriuscite dal PCI e alcuni uomini della DC spalleggiati da esponenti di Logge massoniche e Sacre Corone Unite, per i quali la presenza delll’On. Moro rappresentava un ostacolo serio sul loro cammino per la realizzazione di insostenibili progetti. Sono del pari convinto che le astrusità linguistiche di Moro percepibili e annotate in campo internazionale durante la sua lunga attività all’estero quale Ministro degli Affari Esteri avessero anche potuto insospettire alcuni rappresentanti di altri Paesi in ordine alla strategia politica che lo statista italiano intendeva perseguire in Italia(Kissinger non riusciva a seguirlo quando parlava – sic!); e che la linea berlingueriana, fatta di strappi verso i gruppi estremisti che reclamavano più spazio e più ascolto, nonchè i prodromi (fine della spinta propulsiva del….) che hanno successivamente fatto arrivare il PCI alle “convergenze parallele” con la DC abbiano potuto irretire alquanto ii comunismo orientale nei confronti del comunismo italiano. Ma pur con tutto ciò, non mi sento sinceramente aperto, né tanto meno propenso ad abbracciare la tesi del complotto internazionale che vuole rappresentareare il nostro Paese come un teatro di pupi diretto da pupari stranieri, sostenuta da Giovanni Fasanella.nel suo libro “ll puzzle Moro”.

Li 16 Agosto 2018.